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Vita In Pillole

~ Tipico blog di un'adolescente atipica

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Il mondo perduto delle granduchesse

03 sabato Set 2011

Posted by LadyLindy in Dato che a scuola ci vado pure io...

≈ 17 commenti

Tag

Aleksandra Fedorovna, Aleksej, Anastasia, cultura, donne nella storia, Ekaterinburg, impero russo, Maria, Nicola II, Olga, otma, Rasputin, Romanov, Russia, storia, Tatiana

Mi scuso finora per la lunghezza del post.

Ci sono tante storie nella storia. Alcune insegnano o colpiscono di più delle versioni ufficiali che si trovano sui libri di scuola. Io sono rimasta estremamente affascinata da quella dell’ultima famiglia imperiale russa, della grande dinastia Romanov, e in particolare mi sono fissata tantissimo con le ultime granduchesse. Perché erano persone interessanti, erano vere, dallo sguardo fiero e con personalità per cui vorresti saperne sempre di più, vorresti sapere che cosa sarebbe successo, se il destino non avesse decretato per loro un futuro “passato” ancora prima di arrivare.

E poi, ti chiedi quale fosse la loro colpa. Cosa potranno aver mai fatto per meritarsi il massacro di Ekaterinburg, le violenze, il dolore, la segregazione? Se loro padre, lo Zar Nicola II, era una persona inadatta a governare – e all’inizio non voleva nemmeno farlo, non sapeva cosa combinassero le forze dell’ordine durante le manifestazioni popolari (anzi, non sapeva nemmeno perché ci fossero tali rivolte), se si rendeva sempre conto di tutto in tremendo ritardo, erano forse anche le granduchesse e lo sfortunato zarevic Aleksej a dover pagare? E per l’immensa timidezza (ereditata dalla nonna Vittoria) scambiata per scontrosità della loro madre Aleksandra, che col suo affidarsi a santoni tipo Rasputin e col suo rifiuto di ricercare l’approvazione popolare si fece odiare da tutta la Russia, erano loro a dover rispondere?

Forse la verità è che ci furono vari fattori a concorrere per la tragica rovina di una dinastia imperiale. Ma non sono una storica, né ho la pretesa di analizzare e scrivere saggi: mi limito ad ammirare queste quattro ragazze e il fratellino, che terminarono la loro vita rispettivamente a 22, 21, 19, 17 e 13 anni. I figli dello Zar erano strettamente uniti e affettuosi l’uno con l’altro, perché si trovavano sempre isolati nei corridoi di palazzo, senza rapporto alcuno con i coetanei né del popolo (ovviamente) né dell’aristocrazia, considerata “depravata” dalla mamma Aleksandra (“Alix”). Ma non ebbero mai la puzza sotto il naso, anzi: dormivano in brande da campo a due a due, divisi fra coppia grande (Olga e Tatiana, le maggiori), coppia piccola (Maria e Anastasia), e Aleksej da solo in quanto erede al trono. Trattavano il personale e le dame di compagnia quasi come pari, ricevevano la paghetta di due rubli a settimana, si impegnavano nel sociale e nella beneficenza, durante la prima guerra mondiale aiutarono come crocerossine negli ospedali da campo (lo zarevic aveva solo 10 anni allo scoppio del conflitto).

Lo Zarevic Aleksej

La coppia imperiale dovette provarci quattro volte prima di dare alla luce un figlio maschio, l’ erede, e quando questo accadde si scoprì che il piccolo Aleksej era emofiliaco. La madre non si diede mai pace, sapendo che era dal suo ramo familiare che la malattia era stata ereditata; i sensi di colpa la fecero rifugiare nella religione, rendendola quasi bigotta, e nel misterioso mondo di Rasputin. Lo Zarevic, dal canto suo, era un bellissimo bimbo fragile, che quando stava bene risollevava il morale di tutto il palazzo. Purtroppo morì troppo giovane per darci un’idea di come sarebbe potuto essere.

Granduchesse Olga e Tatiana

Olga, la maggiore, aveva un’inclinazione per la filosofia e il pensiero. Timida, malinconica, d’intelligenza pronta e vivace, assolutamente buona e gentile con tutti, era un vero giglio di campo. Era l’intellettuale della famiglia, se così si può dire: le piaceva fare i compiti e studiare, leggeva di nascosto i libri della madre anche prima che questa li iniziasse. Se veniva scoperta, si giustificava dicendo: “Abbi pazienza, Mamma, devo vedere se questo libro è adatto a te.” Fu la prima a rendersi conto della situazione russa al di fuori del palazzo, grazie alla stampa e alla voglia di scoprire lo stile di vita del vero popolo (aspirazione condivisa dai genitori). Preferiva Golia a Davide, se proprio volete saperlo.

Olga e Tatiana

Tatiana fu la figlia prediletta dalla madre Aleksandra, perché le due avevano parecchie affinità. Era lei che faceva da portavoce a tutti i fratelli davanti allo Zar per qualsiasi richiesta, era lei che accudiva la Zarina quando questa fu costretta su una sedia a rotelle negli ultimi anni. Ugualmente agli altri, era abituata a sentirsi chiamare per nome nella quotidianità anche dal personale di servizio, e ci rimase molto male quando la dama di compagnia si rivolse a lei, secondo etichetta, come “Sua Altezza Imperiale” durante un’occasione pubblica. Tatiana le tirò un calcio sotto la tavola sussurrandole “Sei pazza a parlarmi in questo modo?“. Le sorelle la soprannominarono “la governante” perché aveva una naturale predisposizione al comando.

Granduchessa Maria

Maria era l’angelo della famiglia. Aveva un’indole materna, e fu quella che si prese più cura del piccolo e malato Aleksej. Il padre riteneva che sarebbe divenuta un’ottima moglie e madre, ma purtroppo le sue supposizioni rimarranno indimostrabili. Era probabilmente la più carina delle sorelle, con i tipici occhioni blu dei Romanov, i capelli color miele e le guance rosate. Si comportò sempre impeccabilmente grazie alla sua natura dolce e angelica, non fu mai dispettosa, tranne quella volta che rubò qualche biscotto dal tavolino da tè della Zarina… che la volle mandare a letto senza cena. Lo Zar però si oppose, constatando: “Ho sempre avuto paura che le crescessero le ali. Sono contento di vedere che è solo una bambina normale.”

Granduchessa Anastasia

Infine c’è lei, la più famosa, la vera monella della famiglia: Anastasia. Un’attrice provetta, quando si trattava di saltare una lezione o di far impazzire i suoi tutori. Un genietto del male, che non si faceva scrupoli a sporcarsi i bianchi guanti da sera col cioccolato quando andava a teatro, che si arrampicava sugli alberi e non voleva saperne di scendere finché non le veniva ordinato dal padre (e fu l’unica a prendersi uno schiaffone proprio da lui). I suoi dispetti rasentavano il diabolico. Energica, vivace, impertinente e solare, nonostante la salute cagionevole. Affrontava la vita con un gran sorriso.

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Elizabeth Siddal, la principessa dei Preraffaeliti

09 sabato Lug 2011

Posted by LadyLindy in Dato che a scuola ci vado pure io...

≈ 24 commenti

Tag

arte, cultura, Dante Gabriel Rossetti, donne nella storia, Elizabeth Siddal, Millais, preraffaeliti, Twelfth Night

O Mistress mine, where are you roaming? 
O, stay and hear; your true love’s coming
That can sing both high and low
Trip no further, pretty sweeting
Journeys end in lovers meeting
Every wise man’s son doth know.What is love? ‘Tis not hereafter
Present mirth hath present laughter
What’s to come is still unsure
In delay there lies not plenty
Then, come kiss me, sweet and twenty
Youth’s a stuff will not endure
(W. Shakespeare, Twelfth Night)
In onore del mio nuovo header (e partiamo già da una premessa piuttosto sbruffoncella), voglio presentarvi questa donna che mi ha sempre affascinata, e mi stupisce non abbiano ancora tratto un film o qualcosa del genere dalla sua vita (ormai lo fanno su qualsiasi cosa, perché non su lei allora?). Cari registi che leggete il mio blog, non nascondetevi, so che siete un fottìo, quindi accogliete i suggerimenti.
Lizzie arrivò a fare un mestiere meraviglioso, che veramente pochi possono permettersi: la musa ispiratrice. Chissà cosa spinge un artista a scegliere una persona piuttosto che un altra; probabilmente lo stesso criterio che spinge noi a innamorarci di qualcuno e non di un altro. Ecco perché, molto spesso, la figura della musa e quella dell’amata coincidono (vale anche al maschile, ovviamente). Fu la stessa cosa che successe al pittore Dante Gabriel Rossetti: prima ritrasse Miss Siddal, poi se ne innamorò. Anche se la sequenzialità delle due azioni è tuttora, e sarà sempre, impossibile da stabilire con certezza.
Era una storia già problematica sul nascere. Lei aveva qualche avvisaglia di depressione, ma soprattutto era di origini umilissime, e ciò scoraggiava Rossetti a chiederla in sposa. Sarà stato l’animo un po’ svasato da artista, o le circostanze, comunque una volta ottenuto il consenso di Lizzie lui continuava a fissare date sempre più lontane per la cerimonia, e a posticipare in continuazione, facendo impazzire la modella inglese.
Ad aggravare la situazione, c’erano quelle stronzette delle sorelle di Rossetti che l’avevano già etichettata come una specie di popolana/sgualdrina, inoltre la Siddal cominciò ben presto a sospettare che il marito (perché i due si sposarono nel 1860, quando lei aveva 31 anni) non avesse solo lei ad ispirarlo. Non si sa con certezza quando, per curarsi dalla depressione, dovette iniziare ad usare il laudano, fatto sta che le dosi raccomandate tendevano un po’ troppo spesso all’arrotondamento per eccesso… Un modo semplice per avere l’illusione di star meglio, quando in realtà la salute peggiorava.
Ci si mise anche la polmonite. Il modo in cui la contrasse, però, è curioso. In quel periodo Elizabeth faceva la modella per Millais, impersonando Ophelia di Shakespeare nel meraviglioso omonimo quadro. Dovette rimanere per lunghissimo tempo a mollo in vasca, ma non si lamentò mai. Poi qualche lampadina che riscaldava l’acqua si ruppe, ma lei, anche se mezza congelata, resistette nella stessa posizione. Quando uscì dall’acqua era più malata, più intirizzita, aveva scatenato una battaglia legale fra suo padre e il pittore Millais, ma aveva contribuito a regalare al mondo un quadro che ritengo fra i più belli esistenti.
Quello fu solo un esempio fra i tanti della sua cocciutaggine e del suo carattere impetuoso – una delle cose che mi ha più colpita, infatti, è il fortissimo contrasto fra la Elizabeth dei Preraffaeliti e la vera Elizabeth. Anche lei, avendo un’anima inquieta, come tutte le persone tormentate si doveva esprimere con l’arte (poesia, pittura), ma guardate che differenza:

Lizzie vista dal marito

Lizzie vista da se stessa

Potete notare anche voi che i due punti di vista sono estremamente diversi. La prima è una donna idealizzata, eterea, dai lineamenti dolcissimi, la stupenda e voluttuosa chioma rossa (fra l’altro molto rara) lasciata sciolta, che tanto doveva colpire sia le donne sia gli uomini che la guardavano, i grandi occhioni verdi… non è la reale Elizabeth, ma la sua trasfigurazione in Venere, nella bellezza eterna.

La seconda è una donna assai più realistica, un autoritratto di come doveva presentarsi nella vita di tutti i giorni, che io però non considero vero, ma verosimile. Si sa che in realtà questa persona non era né eterea come la dipingevano, né severa stile “signorina Rottenmeier” come si dipingeva lei (forse per dare di sé l’immagine che la società voleva vedere, dato che le modelle non erano considerate sante e pure): gli occhi più scuri e severi, che qui lasciano intravedere tutti i problemi e le inquietudini; i capelli stavolta raccolti come ogni altra donna vittoriana, il vestito castigato e nero da direttrice di un riformatorio, il viso spigoloso.

Sono convinta che in realtà ci fossero entrambe queste anime nella figura della Siddal, sia la parte forte, poetica e quasi anticonformista, sia la parte delicata, fragile e desiderosa di non essere considerata “diversa” dalle coetanee. Il colpo di grazia a culmine di tutte le sue fragilità fu la nascita del figlio, che venne alla luce già morto. Prese una culla vuota, e distrutta dalla disperazione la pose vicino al focolare – diceva a tutti gli ospiti di fare piano, ché il figlio morto stava dormendo. Poi, una fiala di laudano in più, che i dottori bollarono come “morte accidentale”, le tolse la vita. Suicidio, in realtà. Il marito lo capì. Prima di rovinarsi definitivamente l’esistenza nel ricordo della moglie e nell’ossessione di trovare i soldi per pubblicarne postume le poesie, Rossetti dipinse il suo capolavoro in onore della moglie defunta.

Beata Beatrix, 1872

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Appuntamento con Erzsébet Báthory. A vostro rischio e pericolo

11 venerdì Mar 2011

Posted by LadyLindy in Dato che a scuola ci vado pure io..., Pensieri di sfuggita

≈ 19 commenti

Tag

cultura, donne, donne nella storia, Elisabetta Bathory, Erzsébet Báthory, personaggi storici, storia

Attenzione! Avete appena mangiato? Siete deboli di stomaco? Non vi è piaciuto Il Cigno Nero per le scene delle unghie? Allora vi sconsiglio la lettura…


Elisabetta Bàthory, sposa dell’alto signore Francesco di Nàdasdy, Magistrato del Re e grande Maestro dei cavalli, rimasta vedova, essendo stata giudicata da codesto tribunale infame ed omicida é morta nella sua prigione di Csejthe. Morta all’improvviso, senza croce e senza luce, il 21 agosto 1614, di notte.

(Krapinai Istvàn, cronista)


Le personalità più tormentate ed inquietanti, alla fine, sono le più interessanti. Almeno, io la penso così. Oggi andiamo a fare la conoscenza della contessa Elisabetta (o meglio, in ungherese, Erzsébet, un nome che mi piace da matti… ho lontane origini ungheresi). Prego, accomodatevi sul divanetto rosso e guardate bene quel volto enigmatico. Il volto di quella che è stata una bambina angelica, almeno nelle fattezze, con qualche momento di schizofrenia.

Cercate di capirla: nata nella terra dei Daci, ancora più pagana che cristiana, con i culti della Terra, del Sole, della Luna. Aveva solo 6 anni quando, nella corte circondata dai Carpazi, vennero invitati degli zingari per sollazzarsi un po’. Il problema è che uno degli suddetti zingari aveva venduto i figli ai Turchi, acerrimi nemici, spinto dalla miseria. Quindi un soldato simpaticone, per condannare il poveretto, decise di squartare il ventre di un cavallo e infilarci dentro l’uomo, lasciando sadicamente fuori solo la testa, poi lo ricucì e buonanotte al secchio. La piccola Elisabetta, nascosta in un angolo del giardino del palazzo, aveva visto tutta la scena. La realtà superava di molto qualsiasi film horror, altro che Dario Argento. Chissà per quanto tempo, dopo tutto ciò, la contessina era rimasta con gli occhi persi nel vuoto e le parole ferme in gola.

Tutta l’infanzia era trascorsa all’insegna delle crudeltà dei regnanti ungheresi, fra assassinii e repressioni violentissime contro qualche contadino sospettato di ribellione. E lei, all’apparenza imperturbabile, con quel visino di porcellana, quelle belle mani candide, covava nell’animo chissà che lucida pazzia. Poi, come ogni nobile di tutte le epoche e famiglie, il grande passo del matrimonio. Lo sposo era Francesco (Ferenc) Nádasdy, un tipo se possibile ancora peggiore di tutta la famiglia d’origine, dotato di rara crudeltà. Possedeva delle arnie piene di api, e si divertiva da matti (mai locuzione fu più azzeccata) a cospargere di miele delle ragazze nude  e lasciarle lì, in balia di quegli insetti. Sapete, la guerra contro i Turchi lo stressava molto, aveva pur bisogno di svagarsi. Poi vi lamentate del bunga bunga.

Mentre il marito era in guerra, anche Elisabetta doveva pur trovare qualcosa da fare. Era molto giovane, carina, poteva permettersi di aspettare un po’ prima di fare figli. Un giorno va a trovare la zia Karla: bacio bacio, ma come stai, come ti vedo bene, come sta tuo marito. Al bando i convenevoli e via con le orge. Sì, avete letto bene… nella compagnia delle orge clandestine c’era anche una certa Dorothea Szentes, esperta di magia nera, con il servo Thorko. Da quel giorno la vita di Elisabetta è ricordata solo come un susseguirsi di orrende nefandezze.

Furono almeno 610 le vergini ammazzate per volere della sanguinaria contessa. Non che le fossero antipatiche, piuttosto voleva per sé tutta la loro giovinezza… una volta schiaffeggiò così forte una giovane serva da farle sanguinare il naso. Una goccia di sangue bagnò la mano di Elisabetta, la quale si accorse che in quel preciso punto la pelle sembrava essere ringiovanita. Allora si convinse degli effetti benefici del sangue virginale, e se ne procurò sempre in gran quantità (vi lascio immaginare come), per poi berlo o riempirsi la lussuosa vasca da bagno.

Gli esempi del suo sadismo e del suo piacere nel torturare si sprecano. La sua mente era ormai completamente partita per mondi lontanissimi, che preferirei non vedere mai. Tanti veleni, tante giovani uccise in maniere fantasiose e sempre differenti, tante invocazioni a Satana, tanta indifferenza da parte dei familiari che poi non erano tanto migliori (chissà i pranzi di Natale).

Poi, un giorno di tuoni e lampi tipici della Transilvania, uscì la sentenza del tribunale della Chiesa. Le serve e i complici, bruciati vivi al rogo. Elisabetta no. Era una nobile e serviva qualcosa di più consono, magari meno adatto al pubblico ludibrio, ma sadico come la sua mente. Arrivarono dei muratori e murarono, una dopo l’altra, le finestre della stanza dove la contessa si trovava in quel momento. I suoi occhi indagatori percepirono piano piano affievolirsi la luce, ogni secondo sempre di più, forse con la certezza che non sarebbero mai più tornati a vederla. Solo un buchetto nel soffitto per il minimo di ossigeno a tenerla in vita, pane e acqua.

Il castello deserto, il silenzio tutto attorno. Le stagioni tutte uguali, il senso del tempo ormai perso. Sola e abbandonata dal resto del mondo: l’unico momento di pace della sua vita, seppure il più drammatico? L’unico spazio di quiete per una mente malata e chiusa nella prigione della pazzia? Ormai, infatti, il corpo fisico era solo un contenitore, un prolungamento del disordine interiore. E lo rimase per tre anni e mezzo, senza mai piangere, senza mai chiedere pietà a chi l’aveva condannata. Poi, anche lei morì. Di notte.

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