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Vita In Pillole

~ Tipico blog di un'adolescente atipica

Vita In Pillole

Archivi della categoria: Questo è cinema bellezza

Si alza il vento. Bisogna tentare di vivere.

13 giovedì Nov 2014

Posted by LadyLindy in Pensieri di sfuggita, Questo è cinema bellezza

≈ 11 commenti

Tag

animazione, cinema, 風立ちぬ, film, hayao miyazaki, Kaze tachinu, Miyazaki, si alza il vento, studio ghibli, the wind rises

Dopo un lungo iato e un minipost vacanziero (a breve le soluzioni) torno a scribacchiare qualcosa, e non credo ci sia argomento migliore di questo.  Come vedete, ho seguito il consiglio di qualche amica lettrice e sto lavorando sulle modifiche alla grafica: non è ancora finita, eh! 

Avete presente quei silenziosi momenti in cui si trattiene il respiro per una frazione di secondo? Quando si spengono improvvisamente le luci in sala perché sta per iniziare il film, o l’attimo in cui si richiude la porta dietro all’ultimo dei numerosi ospiti che gironzolavano per casa? Quando il caos è come risucchiato dalla mano del direttore d’orchestra mentre la chiude a pugno, e cala un silenzio innaturale?

Ecco, scusate tutto questo incipit sbrodolato, ma io ho trattenuto il fiato perché ngli ultimi tempi era circolata ovunque la notizia che lo Studio Ghibli avrebbe chiuso definitivamente. Considerato il fatto che il fondatore Miyazaki aveva già annunciato qualche mese fa il suo ritiro dal mondo dell’animazione, che Isao Takahata ci mette anni per finire un film e non rispetta più alcuna scadenza ( anche lui aveva fatto capire di averne abbastanza), che il produttore Suzuki vuole dedicarsi ad altro, e soprattutto considerate le condizioni economiche in cui versa la Ghibli – a quanto pare, poche vendite del merchandise e l’ultima uscita che ha fatturato poco (ma in realtà quest’ultimo è un dato opinabile perché anche i maggiori successi sono partiti in sordina) – c’era ben poco da sperare. Mi sono concessa un lungo sospiro solo dopo aver letto che in realtà si è trattato di un errore di traduzione: non ci sarà una chiusura ma “solo” una pausa, per riorganizzare la struttura interna dello studio e farsi un po’ i conti in tasca. Falso allarme? Quasi, perché giriamola come vogliamo, ma non credo che rivederemo il grande maestro Miyazaki di nuovo alla regia. Chissà, forse come consulente artistico. Le nuove leve ci sono, ma spero fortemente siano migliori di suo figlio Goro.

Caso ha voluto che proprio mentre queste notizie giravano per tutto l’Internette, a inizio Agosto, io avessi appena finito di vedere sia The kingdom of dreams and madness, documentario sulla storia della casa di animazione e sul suo fondatore [potete vederlo QUI per intero], sia l’ultimo lavoro di Miyazaki, Si alza il vento. Sarò sincera: fra i due, a commuovermi di più è stato il documentario, nonostante il film d’animazione sia indubbiamente un capolavoro e una sorta di “testamento artistico” del maestro.

Questo incanalarsi di visioni e notizie riguardanti la Ghibli mi ha fatto un po’ riflettere su cosa significhi per me, sulla mia passione per i film d’animazione (a cui ha contribuito decisamente anche un’ amica aspirante animatrice e disegnatrice), su cosa renda lo studio giapponese così speciale.

Io sono cresciuta a pane e lungometraggi Disney durante tutta l’infanzia, dunque con un’idea di animazione completamente diversa, soprattutto per quanto riguarda linee narrative, sviluppo dei personaggi, stile e disegno, e ovviamente messaggio finale (o “morale della favola”, se vogliamo semplificare). Le uniche produzioni giapponesi che conoscevo da piccola erano i cartoni animati divisi per puntate, e quasi nessun lungometraggio.

Credo che scoprire i registi della Ghibli  solo dalla preadolescenza sia stato, in definitiva, un bene: certo, non hanno fatto parte della mia infanzia, ma li ho apprezzati a tutto tondo, comprendendoli meglio. E poi da loro è stato tutto un raggiungere altre tappe di scoperta, passando per Satoshi Kon, Mamoru Hosoda, recentemente Makoto Shinkai e tanti altri.

Ma Miyazaki è Miyazaki: lui è pur sempre il Maestro. Per quanto il suo lavoro più conosciuto sia La città incantata (stiracchiata traduzione di Sen to Chihiro no kamikakushi), il mio preferito rimarrà in eterno La principessa Mononoke (battendo di poco Kiki consegne a domicilio): il primo lungometraggio Ghibli che ho visto quando avevo circa 11 anni, il primo che davvero ti rivolta come un guanto e cambia, anche se solo per un paio d’ore, la percezione di giusto e sbagliato, buono e cattivo, senza tentare di nascondere la complessità di mondo ed esistenze intrecciate con la scusa del “film per bambini” – anzi, l’intelligenza dei più piccoli non è insultata e fatta intirizzire come spesso accade nell’animazione occidentale, per cui tutte le vicende presentano invariabilmente lo stesso schema di trama, storytelling e personaggi monocolore – nel caso di Miyazaki lo spettatore di qualsiasi età è, al contrario, sfidato, dissuaso dal giudicare, ed è come se rimbombasse nella nostra testa una serie di domande: cosa conosci veramente? Sei sicuro? Che senso stai dando ai tuoi giorni? Perché questa persona si comporta così, che vissuto ha? E queste sono, in definitiva, anche le domande che si pongono gli artisti che danno vita a questi capolavori d’animazione.

Per capire la caratura non solo artistica, ma anche (e soprattutto, perché da qui tutto deriva) umana di Miyazaki-San, oltre a guardare il documentario linkato sopra – una vera miniera di informazioni, saggezza e spunti filosofici utilissimi – è sufficiente qualche minuto di un suo discorso, per esempio quello che è stato pronunciato pochi giorni fa ai Governors Awards 2014, durante i quali il regista ha ottenuto il meritatissimo premio onorario alla carriera. E con questo vi lascio: buona visione per tutto.

[credits: gif iniziale di taitetsu; seconda gif di meowazaki; terza gif di s-tudioghibli; stills da The kingdom of dreams and madness di ricktimus; layout per Kaze tachinu da artbooksNAT]

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Film storici: versione ‘via della seta’ e Asia antica!

29 sabato Mar 2014

Posted by LadyLindy in Colonna sonora, Questo è cinema bellezza

≈ 8 commenti

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asia, cina, cinema, critica cinematografica, cultura cinese, cultura giapponese, Giappone, gong li, serie tv, the legend of zhen huan, Zhang Yimou

[Prima di leggere questo: dopo tanto tempo, ho scritto un articolo per Clamm Magazine sulle fighissime guerriere giapponesi onna-bugeisha! Date un’occhiata QUI!]

Ho deciso che la cosa più giusta da fare, in tutta questa pazzia, è dedicarsi alle maratone di film / serie tv (sai che novità) ma questa volta versione ASIA! E le motivazioni che vado ad elencarvi sono queste:

1. Sto passando un periodaccio (sai che novità, capitolo secondo)

2. A detta di tutti, i cinesi ci conquisterannooooh! gomblottooooh!11!!1

3. La storia e le varie materie umanistiche che ci insegnano a scuola sono per forza di cose eurocentriche. E un po’ questo mi mette il nervoso. [Ho iniziato a pormi strane domande che qualsiasi individuo sano di mente probabilmente non si farebbe mai, del tipo: che differenze ci saranno mai fra la dinastia Tang e la dinastia Ming? Quanti cavolo di dialetti parlano in Cina? Ma come si vestivano le tipe in Asia – c’è solo il kimono? Davvero? E allora il qipao? E che differenza c’è fra le corde dello shamisen e quelle del guqin? Come facevano a decorare con stampe così belle i vestiti nei paesi asiatici? Come caspita si viveva nella città proibita dell’Imperatore cinese? Perché i capelli delle donne asiatiche sono generalmente così belli e lisci e setosi e splendenti? Chi è l’autore di tutti quei bei disegni primaverili bidimensionali floreali delicatissimi? Ma soprattutto dove posso trovare l’opera completa di Confucio che fra l’altro dava dei nomi bellissimi e poetici alle epoche storiche [vedi qui]??? E via dicendo. Ci perdevo il sonno.]

Mi sembrano tutti motivi molto ragionevoli, e se non siete d’accordo PEGGIO PER VOI. Come avrete capito, nessun avvenimento personale o di pubblico interesse può distogliere la mia indolenza dalle attività più vergognosamente futili che esistano.

A chi avesse la memoria di un pesce rosso o mi seguisse da poco, oltre al regal perdono offro un paio di link ad altre mie ridicole dissertazioni cinematografiche, con le quali questo post formerà una trilogia (probabilmente ricordata negli annali della critica cinematografica come il blob meno serio di sempre): parte prima e parte seconda. Maneggiare con cautela. E ora iniziamo.

Lanterne rosse

Questo è probabilmente il film migliore fra tutti quelli che vi proporrò nel post. Soffocante, buio, claustrofobico, inquietante e terribilmente bello. Probabilmente lo inserirei in una ipotetica lista dei capolavori cinematografici degli ultimi decenni, e mi stupisce che rispetto ad altri filmoni sia relativamente così poco conosciuto. Il fulcro portante di tutta la vicenda (ambientata nella Cina settentrionale degli anni ’20) è la protagonista Songlian, interpretata dalla strepitosa, bellissima, bravissima, perché-non-sono-te Gong Li [attenzione: durante la lettura del post vi imbatterete spesso in fangirling rivolto a questa attrice] che praticamente ha conosciuto la fama internazionale grazie a questo film e con la sua recitazione dà senso a tutto il resto. Si potrebbero scrivere tomi sulla storia di Songlian, quarta moglie di un arricchito che si troverà a convivere con le altre spose e tutto ciò che ne consegue: poteva essere sviluppata in modo banale e invece è di una complessità sociologica e psicologica spaventosa (anche più sviluppata rispetto al romanzo di Su Tong, vedi la geniale idea di aggiungere le lanterne rosse da cui il titolo). Insomma, guardatevelo. Fidatevi delle mie pillole (vabbè, così suonava creepy).

Voto: 5/5

La foresta dei pugnali volanti

Sempre per restare nella filmografia di Zhang Yimou. I punti forti di questo wuxia sono sicuramente tutti estetici, a partire dalle palette di colori usate nelle diverse scene (che non hanno nulla da invidiare alla scelta cromatica di un Wes Anderson) – ad esempio gli splendidi toni di verde e azzurro che pervadono tutta la parte di film ambientata nella foresta di bambù – passando per i bei costumi, la fotografia e le varie inquadrature che sembrano cucire fra di loro una serie di quadri o stampe d’epoca antica. Non è un caso se Yimou è famoso proprio per la godibilità estetica, le luci e la “festa per gli occhi” di tutti i suoi film. La trama, dal canto suo, è piuttosto intricata e piena di plot twists che ovviamente non vi anticipo: in generale troviamo complotti contro il potere imperiale, classiche scene di lotta con tanto di arti marziali disseminate qua e là, qualche scenetta memorabile per i dialoghi, tragici amori, eppure… c’è qualcosa che non mi torna. Manca un quid che lo renderebbe all’altezza degli altri film dello stesso regista. Sarà che Zhang Ziyi non mi sembra mai ben calata nei suoi ruoli (nemmeno in Memorie di una Geisha, che non ho inserito in questo post perché poi perdo il controllo e straparlo), sarà che certi ribaltamenti narrativi mi sembrano forzatissimi, diciamo che mi ha lasciato la sensazione di un’occasione sprecata. Una stellina in più, però, per la fantastica colonna sonora del grande Shigeru Umebayashi che vi allego:

voto: 3,5/5

In the mood for love

Di nuovo onore e gloria a Umebayashi – fatevi un favore e ascoltate la playlist con questa colonna sonora QUI. Anche su questo immenso film ci sarebbero da scrivere pagine e pagine: di come sia impostata la tecnica di ripresa, di come ciò che non si dice e non si fa abbia ripercussioni e importanza spesso maggiore rispetto a ciò che effettivamente si fa e si dice, della poesia e della musica che gradualmente si sostituisce ai dialoghi (pochi) e agli sguardi (molti) dei protagonisti hanno già parlato in molti. Sarebbe ridicolo e riduttivo descrivere questo film come la storia di due, già sposati, che casualmente si incontrano nella Hong Kong degli anni ’60 e capiscono di essere in realtà destinati ad amarsi (proprio mentre i loro coniugi li tradiscono con i rispettivi marito e moglie, fra l’altro), senza mai esplicitare nulla, nascondendo l’anima dagli occhi severi di una società sempre pronta a giudicare. Sarebbe ridicolo e riduttivo perché le implicazioni sono innumerevoli. Guardatevi pure questo, e più di una volta. Maggie Cheung si merita un grande abbraccio.

Voto: 5/5

La città proibita

Zhang Yimou parte terza. Il titolo inglese, che tradotto sarebbe La maledizione del fiore dorato, a mio parere rende molto meglio. Filmone di proporzioni gigantesche per quanto riguarda scenografie, costumi, trucco e parrucco, riprese e fondali. Credo sia una delle produzioni cinematografiche più costose mai uscite dall’Asia, ed effettivamente guardando la cura dei dettagli, l’onnipresente patina d’oro (classica prigione dorata che racchiude dolori e traumi psicologici dietro ad una superficie di opulenza e ricchezza), le innumerevoli comparse e la pesante atmosfera del palazzo imperiale, è facile capire come mai siano servite tante risorse. Fatevi un’idea da questi screencaps.

Prendete un family drama con tradimenti, gelosie, ripicche, strane dinamiche familiari e sadiche punizioni. Solo che la famiglia in questione è quella imperiale cinese, durante la dinastia Tang, vale a dire il fulcro di potere assoluto in uno dei Paesi più grandi al mondo. Anche in questo caso, spicca Gong Li: pur senza volerlo, il complesso e tragico personaggio dell’imperatrice – allo stesso tempo vittima e carnefice – mette quasi in ombra il resto del cast e fa perdonare gli errorini del film nel complesso.

Voto: 4/5

E infine, per la rubrica “serie televisive misconosciute che però in Cina hanno un seguito pazzesco”, ecco a voi:

La leggenda di Zhen Huan

Voi mi dite Beautiful o Centovetrine. E io vi rispondo: PUPPA! Premettendo che ci sono un centinaio di episodi e io ne ho visti solo una ventina, questa serie tv potrebbe quasi avvicinarsi a Death comes to Pemberley o altre serie in costume della BBC. Potrebbe. Se non fosse per la sostanziale piattezza dei personaggi – se ne salvano un paio, fra cui la cattivona antagonista, perché sono interpretati da attori bravissimi – e dalla trama che con l’andar del tempo si affievolisce e diventa un po’ ripetitiva / prevedibile. Però godersi qualche episodio vale la pena, se non altro per i curatissimi costumi, i luoghi delle riprese, i gioielli, il trucco e la strabiliante accuratezza storica di certi dettagli.

Voto: ancora non classificabile in toto visto che non l’ho finita, e probabilmente mi ci vorrà un po’ prima di portare a termine la missione. Molto meglio delle soap opera che fanno vedere qui da noi, comunque.

Molto bene, ora concludo in bellezza con qualche scatto preso da alcuni photoshoot di Gong Li (i primi due per L’Officiel China, il terzo per i gioielli Plaget, mentre l’ultimo è una splendida foto di Jean-Marie Périer). Nel caso non l’abbiate ancora capito: QUANTO AMO QUESTA DONNA. Probabilmente una delle più belle e talentuose nel mondo del cinema contemporaneo, e se non siete d’accordo tolleranza zero e disonore su di voi.

 

Alla prossima, impillolati. Se siete interessati potrei sempre fare la versione India / Bollywood, fatemi sapere!

Spread the ammmore.

 

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Maison Gattinoni, tanta bellezza in un colpo solo, da svenimento!

02 domenica Ott 2011

Posted by LadyLindy in Fashion Sense, Questo è cinema bellezza

≈ 21 commenti

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Anita Ekberg, Anna Magnani, Audrey Hepburn, cinema, Clara Calamai, costume, Fernanda Gattinoni, Gattinoni, Guerra e pace, Kim Novak, la dolce vita, Lana Turner, Lucia Bosé, Marlene Dietrich, Milly Vitale, moda, Modena, mostra, Rossellini

Audrey Hepburn interpreta Natasha in “Guerra e Pace”, vestito della maison Gattinoni

“Può essere che i miei abiti sembrino troppo semplici per una sfilata, ma proprio per questa loro semplicità rimangono attuali nel tempo. Un vestito non è chic se la gente si volta a guardarlo. Deve passare inosservato, e soltanto dopo tre volte che è stato visto, colpire. La prima dovranno pensare ‘è carino’, la seconda ‘è veramente carino’, la terza ‘che meraviglia!'”

– Fernanda Gattinoni

Passando per Modena, ho avuto occasione di visitare la mostra “Fernanda Gattinoni: moda e stelle ai tempi della Hollywood sul tevere“. Mi capita spesso di gironzolare per vari posti ed imbattermi in esposizioni o ritrovi particolari, ma vi giuro, in questo caso sono rimasta tanto colpita da sentire il bisogno impellente di condividere tutto quello che ho visto/letto/ammirato/sentito.  Sono entrata, ho spalancato la bocca dallo stupore e non l’ho più richiusa per tutto il tempo (cosa ben rara, dato che di solito è sempre impegnata a berciare). Una volta uscita, invece, ero capace di pronunciare solo le parole “meraviglioso”, “splendido” e “divino” in loop.

Premetto che stiamo parlando di una donna, Fernanda Gattinoni, che si è fatta le ossa da Londra (interpretandone le linee pulite e semplici) a Parigi (importandone l’eleganza), ha avuto il coraggio di rifiutare una collaborazione con Coco Chanel in persona, ha lavorato per la sartoria che riforniva la casa reale dei Savoia, e ha vestito praticamente tutte le dive del cinema novecentesco. Qualche nome? Audrey Hepburn, che per lei fece un’eccezione e rinunciò momentaneamente al sempiterno Givenchy, Anna Magnani, Kim Novak, Ingrid Bergman, Lana Turner, Anita Ekberg, Milly Vitale, Liz Taylor, Lucia Bosé, Marlene Dietrich,  Gina Lollobrigida, Ava Gardner… Poi le ambasciatrici americane in Italia, la sorella dello scià di Persia. E pensare che tutto iniziò con un paltò verde per Clara Calamai, attrice del periodo dei telefoni bianchi…

Ma passiamo alla mostra, un concentrato di sublime a livelli inimmaginabili. L’essenza dell’eleganza, mi verrebbe da dire. Rende molto l’idea del clima da Dolce Vita che si avvertiva a Cinecittà dalla seconda metà degli anni ’50 ai primi anni ’60. Non c’è un vero e proprio pezzo forte, perché tutti gli abiti sono delle vere opere d’arte, usati nel cinema o no.

Partiamo dall’angolino che mi ha emozionata di più, ovvero quello di Audrey Hepburn e il suo guardaroba in Guerra e Pace. Non potevo veramente crederci, quelli erano i suoi abiti, lei è stata lì dentro, fasciata in un velo impalpabile di organza bianca e strass applicati con precisione maniacale, o in un vestitino nero semplicissimo, o ancora in deliziosi abiti d’ispirazione quasi infantile, ricamati a cavallini e zucchero filato usando velluto blu, cristallo e passamaneria… stava per scendermi una lacrimuccia di commozione a vederli dal vivo…

Fra l’altro, la Gattinoni aveva sempre avuto uno splendido rapporto con le sue clienti per cui creava abiti esclusivi (spesso mai riprodotti, di cui esistono infatti copie uniche)… per Audrey preparava spremute d’arancia in modo da sostenerla durante le spossanti prove dei costumi. La stilista la considerava un po’ “perfettina”, ma si vollero sempre bene.

To Fernanda Gattinoni, my sincere thanks and warmest wishes - Audrey Ferrer

Fernanda e Anna Magnani furono amiche intime, e l’attrice si affidò a lei per la sua ossessione per le petites robes noires. Ce ne sono in un bel numero da ammirare, che siano in jersey, raso od organza, e alcuni sono stati usati anche per il cinema. A proposito del loro rapporto, Fernanda raccontò: “Era venuta per farsi confezionare un abito per il Capodanno. L’abito, naturalmente, era pronto da tempo, ma lei non era venuta a ritirarlo. Allora abitavo sopra l’atelier di Via Marche. Era quasi mezzanotte ormai e sentii degli schiamazzi dalla strada. Anna aveva cominciato ad urlare: ‘A Fernà me manni giù er vestito?'”.

Anche l’affascinante Kim Novak si fece vestire da Gattinoni, mettendo in risalto le forti spalle con lunghi abiti dalla linea a sirena e scollo all’americana, in raso e pizzo macramé.

Fernanda faceva anche da mediatrice fra Ingrid Bergman e il marito Roberto Rossellini quando i due litigavano; nel frattempo Ingrid metteva gli occhi su vestiti drappeggiati, con un’allure da dea, corpetti lavorati a canestro e preziosissimi dettagli in swarowsky. Anche in questo caso, i capi esposti sono sia privati sia da set cinematografici.

Poi troviamo le scelte della capricciosa ed irrequieta Lana Turner, fra cui figurano veri e propri capolavori di sartoria, giochi di colori contrastanti e tessuti raffinati come la seta, pizzo chantilly, innumerevoli strati di tulle, drappeggi vaporosi a canestro… attenzione ai corpetti, vero punto forte!

L'atelier

Consiglio veramente questa mostra, se ancora non lo abbiate capito. Cioè, dai, si vede o no che ho ancora gli occhi luccicanti? Poi non ho mai messo così tante immagini in un post.

Per informazioni sulla mostra, click QUI (sito ufficiale). Le foto non sono di mia proprietà, ma degli autori.

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Prima ridi, poi rifletti. Il paradosso di Cetto Laqualunque

29 sabato Gen 2011

Posted by LadyLindy in Questo è cinema bellezza

≈ 21 commenti

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Antonio Albanese, Cetto Laqualunque, cinema, film, Partito du Pilu, Pilu, Qualunquemente

Sono andata a vedere Qualunquemente sia perché apprezzo molto Albanese, sia perché la campagna pubblicitaria della produzione è stata assolutamente geniale. E’uscito dal nulla un partito, il Partito du Pilu (con relativo sito internet), che dovrebbe essere una presa in giro ma sembra drammaticamente vero e forse più serio di tanti partiti esistenti. Ci sono gli sponsor, le sciacquette tettonate, i gazebo da raccolta firme, gli slogan, i manifesti elettorali. Qualcosa che incuriosisce e diverte allo stesso tempo: sarà per questo che quasi in tutta Italia si faticava, i primi giorni di uscita del film, a trovare posti in sala. Pensate che, se il Partito du Pilu scendesse veramente in politica, avrebbe quasi il 9% dei consensi (dietro alla Lega Nord!) e Cetto è stato citato pure dall’ Economist.

Mi fiondo fiduciosissima al cinema: dopo qualche minuto dall’inizio del film, in estasi grazie al grande talento di Albanese, cominciano a frullarmi in testa tanti pensieri. Questo personaggio, Cetto Laqualunque, all’inizio era nato come caricatura: un’esagerazione da parodia, la summa di tutti i difetti dei politicanti d’oggi esasperati al massimo. Ne usciva un tycoon senza arte né parte, preoccupato solo dei soldi ad ogni costo, che fa affari con la mafia e l’illegalità, conosce un “amore” solo a pagamento. Insomma, un pericoloso truffatore che nessuno avrebbe mai votato. E invece.

E invece una figura del genere, chissà perché, non mi è nuova, anzi suona quasi familiare. Scommetto che dice qualcosa anche a voi. Un piccolo sforzo. I fatti di cronaca e attualità di queste ultime settimane hanno allo stesso tempo aiutato e messo in difficoltà il film: aiutato perché non hanno fatto altro che attirare ancora di più l’attenzione del pubblico, messo in difficoltà perché quella che doveva essere una parodia comica non è altro che la rappresentazione spiccicata della realtà.

Non so se l’intento originario fosse questo, fatto sta che sono rimasta affascinata da tale paradosso, forse uno dei più grandi che abbia mai incontrato: è la realtà che fa la parodia di se stessa. E’ diventato tutto così comico e surreale da non poterlo nemmeno prendere in giro, perché si prende in giro da solo. Non si può più fare satira, perché la realtà ha già superato (e supererà) l’immaginazione di ogni comico esistente. Pazzesco!

Se da un lato il film, con queste premesse da perderci la testa, rischia di non fare ridere perché sembra più realistico che parodistico, dall’altro cerca di svegliarci. Ci prende a schiaffoni dal megaschermo. Mostra la stronzaggine e la schifezza di Cetto, ma mostra ancora di più quelli che lo lasciano fare e si affidano a lui. Sbatte in faccia quello che siamo come un dipinto espressionista di Grosz o Dix. Si ride per le battute grottesche, che nell’universo di Cetto sono cose normali (“Melo -il figlio di Cetto, nda- presto sarò sindaco, quindi tu per legge vicesindaco“). Non si ride quando si ha l’impressione di vedersi in uno specchio per nulla deformante, anzi fin troppo lucido, e si prova un po’ di vergogna.

Certe frasi toccano l’apice del sublime, una delle mie preferite è “Voi e la magistratura bastasa non riuscirete a sovvertire il risultato democratico delle elezioni” – capite che qui non c’è nulla di esagerato, anzi… quante volte abbiamo sentito sbraitare oscenità del genere, ma non da comici, bensì da chi dovrebbe governarci? E torniamo al paradosso di cui sopra.

Non c’è che dire, un film da vedere e su cui riflettere, per poi uscire dal cinema intonando Meno male che Cetto c’è.

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Remember, remember, the fifth of November

05 venerdì Nov 2010

Posted by LadyLindy in Pensieri di sfuggita, Questo è cinema bellezza, Telegraficamente

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cinema, film, Guy Fawkes, Guy Fawkes Night, monologo, notizie, V per Vendetta, video

Chi vuole intendere intenda. E… no, non dirò “E tutti gli altri in camper”. L’ho già sentita troppe volte.

P.S. Prometto che appena avrò tempo ritornerò a ticchettare sulla tastiera come un tempo… certo, a voi non fregherà niente, ma lo dico perché la routine e la normalità danno sempre senso di sicurezza. No, tutte scuse, in realtà volevo soltanto buttare giù qualche riga per non postare il video solo soletto. Magari il faccione di V, senza qualche spiegazione, vi poteva inquietare. (Però, a pensarci bene, è proprio quello lo scopo.)

Oh, sentite. Ho già scritto ben sei righe. Direi che bastano, no?

Ma state ancora leggendo?

Fino a qui?

Poveri voi.

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Quasi quasi me lo guardo…

03 mercoledì Nov 2010

Posted by LadyLindy in Questo è cinema bellezza, Telegraficamente

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Tag

attualità, cinema, escort, notizie, onorevole, politica, scandalo

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Il mistero di Somewhere

12 martedì Ott 2010

Posted by LadyLindy in Pensieri di sfuggita, Questo è cinema bellezza

≈ 7 commenti

Tag

cinema, film, Golden Lion, Il giardino delle vergini suicide, Italy, Leone d'Oro, Lost in Translation, Marie Antoinette, pensieri, recensione, Sofia Coppola, Somewhere, Trilogia sulla giovinezza inquieta

Non so se abbiate idea di quanto sia appagante, rilassante e anche divertente andare al cinema da soli. Attenzione, ho detto cinema, non megamultisala con ventordici sale e omarelli urlanti. I multisala sono da affrontare con lo stato d’animo adatto, a prova di poracci, e soprattutto con una nutrita compagnia. Nei piccoli cinema anni ‘70 che trovate in quei paesini sperduti, invece, bisogna andare assolutamente in solitudine, e anche godersela. Il massimo sarebbe rimanere in sala senza anima viva oltre a se stessi… è sempre stato uno dei miei sogni, ma finora non è mai capitato.

Non so nemmeno se abbiate idea di quanto mi piaccia Sofia Coppola. Potevo quindi esimermi dalla visione di Somewhere? Ovviamente no. Però, a dirla tutta, mi aspettavo qualcosina in più da un Leone d’Oro (con tanto di polemiche varie – ma quelle ci sono sempre). Per capirci qualcosina del film è meglio avere una certa conoscenza dello stile SC (Sofia Coppola), in particolare della  Trilogia sulla giovinezza inquieta.

La trama ormai la strombazzano da tutte le parti: padre attore di cinema superimpegnato che sembra il protagonista di Lost in Translation, figlia brava, pulita e carina che sembra una delle ragazzine de Il giardino delle vergini suicide, la vita vuota di lui e l’improvviso cambiamento con l’arrivo della prole. Da un presupposto così, mi aspettavo pochi dialoghi e molte inquadrature, come in effetti ho riscontrato, però… qui si esagera! Già dall’inizio, almeno 15 minuti di orrenda lap dance (so di interpretare il messaggio unanime del pubblico femminile se dico: doveva durare di meno!)(so di interpretare il messaggio unanime del pubblico maschile se dico: doveva durare di più!), altri 10 minuti per vedere la facciona del protagonista ricoperta di gesso, lunghissimi fermo immagine senza senzo. Capisco la voglia di far parlare le immagini al posto degli attori, ma quelle immagini devono come minimo essere ineccepibili!

Per lunghi tratti il significato profondo delle inquadrature, la caratterizzazione psicologica dei personaggi, il messaggio, lasciano il passo ad una certa noia, ad un torpore da pennichella post pranzo. Non fraintendetemi: ho adorato i precedenti film, Marie Antoinette è addirittura fra le mie pellicole preferite di sempre, ma le aspettative createsi circa Sofia e il suo ultimo lavoro (che non erano esagerate, anzi) vengono deluse una per una. Un vero peccato per una sceneggiatura e un’idea di fondo potenzialmente molto buone…

Ah, vi lascio per ultime le due chicche migliori:

1. La parte ambientata in Italia. Non so se si tratti più di satira o più di presa per i fondelli, fatto sta che si assiste ad un vero trionfo degli stereotipi. Oppure sono gli stereotipi ad essere ormai la realtà?

2. Il finale. Un autentico mistero. Tipicamente à la Sofia, ti lascia con un certo disappunto, all’inizio pensi “Bè, ma come, finisce così? E che cavolo significa?”. Poi ci ripensi un attimo e capisci che è lasciato tutto all’idea del pubblico… io ho fatto le mie ipotesi [attenzione, spoiler!]… 1) Lui fa esplodere la macchina e muore travolto; 2) Lui fa esplodere la macchina, simbolo della vecchia e vuota vita di prima, ma si allontana in tempo per sopravvivere e cambia radicalmente esistenza; 3) Lui non fa esplodere assolutamente nulla, e scende dalla macchina perché ha impellente bisogno del bagno. Da qualche parte, somewhere, ce ne sarà pure qualcuno.

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Quando essere belle è scontato, essere intelligenti pure. María Félix

13 domenica Giu 2010

Posted by LadyLindy in Dato che a scuola ci vado pure io..., Pensieri di sfuggita, Questo è cinema bellezza

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Tag

bellezza, cinema, cultura, donne, María Félix, Messico, storia

Acuerdate de Acapulco
de aquella noche
María Bonita, María del alma
acuerdate que en la playa,
con tus manitas las estrellitas
las enjuagabas
(Agustín Lara – María Bonita)

Quel genere di donna che, se non l’ammiri, lo detesti. Parlo dal punto di vista femminile. Se tutti gli esseri viventi dotati di attributi maschili la amano, per noi femminucce la questione si fa più difficile.

Perché sappiamo che non saremo mai come lei. Lei che era bella oltre ogni immaginazione, e fino a qui va anche bene perché potremmo consolarci pensando che magari era stupida – macché! Era intelligente e furba come una volpe, dotata di arguzia e autostima da vendere.

Gli uomini reagiscono in due modi con esemplari femminili di questo tipo: o si rendono zerbini ai loro piedi, o sono spaventati (ma non ammettono che vorrebbero tanto essere degnati di uno sguardo).

María, signorinella messicana dei primi del ‘900, cresciuta nel paesotto di Álamos che a quei tempi avrà avuto sì e no 20.000 abitanti, si faceva già notare da piccola. Aveva un comportamento considerato sconveniente per una femminuccia beneducata, era estroversa e pretendeva di essere trattata alla pari degli uomini. Fra i suoi dieci fratelli ce n’era uno, Pablo, con cui aveva un rapporto più che stretto – la povera madre Josefina, messa in allerta dal possibile scandalo provocato da una relazione incestuosa, spedì il ragazzo in una scuola militare. Risultato? Mentre María resistette grazie al carattere forte che in seguito sarebbe stato parte del suo mito, Pablo si suicidò per il dolore della separazione forzata. Un’altra vittima immolata all’altare dei benpensanti.

La nostra ragazza cresceva, e con lei cresceva la sua bellezza, come nelle favole di principesse che ci raccontano da piccoli.

Fu a Città del Messico che il Destino le presentò quell’opportunità che cambia la vita. Il treno che passa solo una volta, come si suol dire. Per caso, incrociò per strada il regista Fernando Palacios. Egli le chiese se aveva intenzione di diventare attrice, offrendole fama, ricchezza, riflettori, ribalta, e altre amenità del genere. Ora, pensate come avrebbe reagito qualsiasi ragazza al suo posto. Probabilmente si sarebbe gettata ai suoi piedi implorando un ruolo da comparsa di due minuti (per non parlare di cosa sarebbe successo oggi, quando i ragazzi fanno di tutto per il famoso quarto d’ora di celebrità predetto da Warhol).

Lei, invece, si dimostrò subito diversa. Rispose, altezzosa come se la fama l’avesse avuta già in tasca: “Chi le dice che voglia entrare nel cinema? Se ne ho voglia, lo farò; ma quando lo vorrò io, e sarà attraverso la porta principale”. In effetti nel cinema ci è entrata, e non attraverso una porta ma da un cancello d’oro – essendo una tipa che otteneva sempre ciò che voleva, ogni suo film fu un successo clamoroso, contribuendo all’epoca d’oro del cinema messicano e alla sua aura da diva intraprendente. Attorno a lei si creò un alone di mistero e pettegolezzo, il pubblico la amava e rispettava, ma quando sei troppo perfetta ti crei inevitabilmente inimicizie e invidie.

Le sue risposte ai reporter e alla stampa divennero leggendarie. A un giornalista che le chiese se era lesbica, lei rispose: “Se tutti gli uomini fossero brutti come lei, certo che sarei lesbica”. Quando una le chiese la sua età, María disse: “Guardi, signorina, sono stata molto occupata vivendo la mia vita e non ho avuto tempo per contarla”.

Passò attraverso un paio di matrimoni e un figlio, ovviamente il suo più grande ammiratore, senza mai un cedimento. Le vennero dedicate canzoni e poesie. Anche ad 88 anni, quando morì, era ancora la bellezza che era sempre stata, consapevole di aver vissuto pienamente.

Insomma, vabbé che è appena uscito Sex and the City 2, però se volete pensare ad una donna indipendente e starordinaria lasciate stare Carrie Bradshaw… meglio María de los Ángeles Félix Güereña.

 

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