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Isadora Duncan

La mia storia di iniziazione alla danza è piuttosto diversa da quella della maggior parte delle bambine. Innanzitutto, mentre molte iniziano verso i 4 anni, io ho mosso i primi passi relativamente tardi, a 7 anni. In questo modo ho saltato le prime classi, quelle di propedeutica e introduzione al movimento, e sono partita direttamente con le coreografie. Mi sono abituata in fretta ad imparare i balletti a memoria, perché di maestre che ci facevano i segnali dietro le quinte non si vedeva manco l’ombra. Se sbagli, ciccia. La figuraccia è tua.

Diciamo che la passione per la danza non mi è entrata nell’anima così, come una vocazione che di solito caraterizza chi si porta dentro il fuoco sacro del talento – e forse è per questo che non ci farò mai tanta strada – ma piuttosto come quelle medicine che devi berti tutte d’un fiato e alla fine ti vengono a piacere perché sono piene di insaporitori alla fragola.

Il primo periodo, la gavetta in cui tutti devono passare, è solo, esclusivamente, obbligatoriamente la danza classica. Nessuno può fare qualsiasi tipo di danza senza aver prima sgambettato a rigor di danza classica. E’ come costruire una casa senza mettere le fondamenta. Ovviamente anche io c’ero in mezzo. All’inizo era roba da ridere, poi siamo passati al sodo, vale a dire le scarpette da punta. Ora. Le cosiddette punte, tanto belle da vedere, altro non sono che arrotolamenti di raso, lacci e, ultimi ma non ultimi, due bei pezzi di gesso sul fondo. Voglio che tutti voi sappiate, cari amici del pubblico, quanto fanno male questi arnesi da piede ufficialmente utili per “donare maggiore grazia e leggerezza alla ballerina”, in realtà raffinatissime armi da tortura. Provateci voi ad alzarvi, con tutto il peso del corpo distribuito su un quadratino di 2×1 centimetri. E non vi dico i tagli, gli sfregamenti, le vesciche stile scottatura, le unghie che gridano vendetta al cospetto del Cielo. Ogni volta, prima di fare lezione, metri e metri di cerotti a rotolo se ne andavano per avvolgere le mie martoriate appendici inferiori (poi, immancabilmente, finivano insanguinati). Vi avviso: se volete fare danza, scordatevi di avere dei bei piedi. Diventiranno duri, nodosi, gonfi.

Però, posso assicurarvelo, mentre balli pensi a tutto l’immaginabile, tranne che al dolore – che c’è, certo, ma lo senti dopo. Se ti piace quello che fai, quando parte la musica ti sembra di fonderti con il Tutto che ti circonda, sei aria, respiro, energia, calma, quello che vuoi essere. Anche se magari non sei un’étoile, una fuoriclasse insomma, l’importante sono le sensazioni. Quello che comunichi.

Ma torniamo alla mia storia. E’ successo qualche anno fa, quando oltre alla classica avevo anche iniziato la moderna. L’illuminazione, il momento dorato, avete presente quando provi qualcosa di nuovo, che non avevi mai immaginato prima… e d’improvviso ti senti in pace col mondo, con il Creato? Ecco. Se non vi è mai successo, affrettatevi perché la vita è unica e questo vi manca. Se invece gli occhi già vi brillano al ricordo, potete capirmi. Danza contemporanea: due parole che rappresentano l’Universo Cosmico. L’interpretazione è completamente a discrezione del ballerino, che usa tutti i tipi possibili e impossibili di movimento per esprimere il suo mondo interiore, come si sente in quell’istante, si scompone e si ricompone in continuazione… ognuno può vedere qualcosa di diverso, di suo, in un balletto contemporaneo; forse il danzatore si prende anche un po’ gioco del pubblico, che magari non coglie certe sensazioni, certi sentimenti. Quando ho fatto la prima lezione di contemporanea mi sembrava di fluttuare nel Nirvana. Vi giuro che esiste, soltanto che per ognuno di noi il modo di raggiungerlo è diverso.

E sapete la parte migliore? Il mio Nirvana lo percorro a piedi scalzi, alla faccia delle punte.