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“Ero una ragazzina intelligente ma poco pratica, malgrado la libertà che avevo conquistato. Forse per questo non valutai bene la situazione né intuii il genere di ferite che avevo.”
(Frida Kahlo)
You know that I love you boy
Hot like Mexico, rejoice
At this point I gotta choose
Nothing to loose
Don’t call my name
Don’t call my name, Alejandro
I’m not your babe
I’m not your babe, Fernando
(Lady Gaga – Alejandro)
Alejandro: si chiamava così il primo amore, quello adolescenziale che non si scorda mai, di una fanciullina messicana dalla vita inquieta e sfortunata. Quella ragazzina era Frida Kahlo.
Una persona con qualcosa di speciale che il Caso, e il suo stretto parente, il Destino, si divertirono a bistrattare. Già dalla nascita si intuiva che non sarebbe vissuta fra rose e fiori: soffriva di una malformazione della colonna vertebrale detta “spina bifida”, aggravata da un terribile incidente che avvenne mentre lei viaggiava in pullman – la conseguenza fu la frattura delle vertebre e un’emorragia.
In quel momento, probabilmente senza che Frida se ne rendesse subito conto, la sua vita cambiò per sempre. Fu a quel punto che iniziò la ricerca costante, inquietante, perpetua di un’identità, di un qualcuno in cui riconoscersi. Capita a tutti, prima o poi, di arrivare ad un punto in cui ci si chiede che senso abbia esistere, fare quello che si sta facendo. C’è chi si mette il cuore in pace e chi vuole andare più a fondo – come nel caso di questa creatura controversa.
Bella non era bella. Monociglio e profondi occhi neri, da latinoamericana passionale, ma con un grande cuore e una grande vena introspettiva, la stessa vena che la spinse a dipingere ossessivamente suoi autoritratti, sia in stile precolombiano (come se volesse tornare alle origini del suo popolo), sia in stile altamente autoironico (ad esempio con una colonna spezzata al posto della colonna vertebrale).
Ci sarà stato il posto per l’amore nella sua esistenza? Forse sì, o forse era solo attrazione intellettuale, quella con Diego Rivera, fatto sta che se lo sposò, lo lasciò per i frequenti tradimenti (che avvenivano però da entrambe le parti – anche con relazioni omosessuali), poi lo riprese, in un’altalena umorale che rifletteva il suo stato interiore.
Non sapeva nemmeno che etichetta dare al suo lavoro artistico, forse considerando le etichette troppo riduttive. Qualcuno la definì simbolista, altri surrealista, ma l’unico dipinto davvero surrealista con dettagli ispirati a Dalì è “Quel che l’acqua mi ha dato”…
Un’arte indefinibile e indefinita per un’anima altrettanto sfuggente, che ci può aiutare a trovare noi stessi con il suo bel contributo.
Figura interessante quella di Fridha Kalo.
Vedo in lei una bella dose di orgoglio femminista tipico del periodo, unito alla costante ricerca di sè stessa, che poi altro non è che la ricerca di significato del’umanità.
Senza voler fare troppe volteggi, mi ricorda sotto certi aspetti Simone Weil, un’altra donna su cui potresti scrivere parecchio!
Permetti ancora un piccolo off topic, c’è tutta una generazione di intellettuali poco conosciuti, come la Weil, la Arendt, la De Beavouir che non hanno nulla da invidiare ai giganti del pensiero novecentesco. Sarebbe bello leggerne le biografie o i profili su qualche blog, come tu oggi hai fatto con Frida Khalo!
A presto
Rasko
vedrò cosa posso fare, intanto grazie del suggerimento… hai pienamente ragione. Orgoglio femminile rules 🙂
Lo hai visto il film di Julie Taymor?
so che esiste, ma non l’ho ancora visto… infatti lo voglio affittare in DVD…
Ti sconvolgerà la vita. Preparati 😀
accidenti, in che senso?
E’ molto psicologico?
Comincio ad avere paura 😀